Di Anna Maria Ventura
C’è un filo luminoso che attraversa le pagine della raccolta poetica nata dalla decima edizione del Premio di Poesia “Umile Francesco Peluso – Calabria Enotria 2025”.
Un filo che lega le parole e le esperienze di poeti provenienti da ogni parte d’Italia, chiamati a rispondere, ciascuno a modo proprio, a una domanda antica e sempre nuova: “Perché poesia oggi?”
L’occasione di questo premio, dedicato alla figura colta e appassionata del senatore e umanista Umile Francesco Peluso, non è solo un tributo alla memoria, ma un invito a riflettere sul valore profondo della poesia: il suo essere cura, pensiero, testimonianza, impegno.
Nelle introduzioni dei Presidenti della giuria:il Prof. Antonio D’Elia, Presidente dell’Accademia Cosentina e Presidente onorario del Premio, il Prof. Massimo Veltri e il poeta Ciccio De Rose, si ritrova un messaggio condiviso: la poesia è “anticorpo contro la modernità”, linguaggio che resiste alla superficialità, uno spazio etico e spirituale che salva, perché permette di abitare il dolore, di dare forma al caos, ma, soprattutto è spazio di libertà interiore e di coscienza.
Leggendo questa raccolta, mi è parso di incontrare i poeti uno a uno, come se la loro voce mi parlasse da un angolo segreto dell’anima.
Ognuno con la propria storia, la propria ferita, la propria luce.
Nelle liriche dei vincitori, questo respiro salvifico si manifesta in molteplici direzioni.
Vincenzo Ursini, con “Tu nella terra (ad un amico emigrato)”, canta l’esilio e la nostalgia con il tono elegiaco di chi affida al verso la memoria e la pietà. Il viaggio e la separazione diventano occasioni di rinascita interiore: “Tu nella terra / hai sepolto il cuore”, scrive, eppure da quella sepoltura germina il ricordo, linfa della vita.
Elisa Lucia Biasi, con “Calliope, ovvero l’eternità della poesia”, fa parlare la Musa stessa, che attraversa i secoli e i silenzi per ricordarci che ogni verso nasce da un atto di dolore e di grazia.
“Non si può che annegare / quando la Poesia / nasce”: un verso che racconta il mistero del dire, la fatica e la salvezza che la parola porta con sé.
Nella sua “Parole nel vento”, poi, il ritmo si fa lieve: la tempesta si placa, e la poesia diventa dono, quiete, resurrezione.
Beniamino Dima in “Fotoreporter”, esprime versi intensi e drammatici.
La sua voce scava nelle immagini della guerra e dell’orrore con l’occhio del testimone: un poeta che si fa cronista e coscienza.
Nella sua poesia, la realtà è nuda, violenta, ma non priva di speranza.
È la poesia del “dovere di ricordare”, del non voltarsi dall’altra parte.
Annalina Paradiso mi ha colpita profondamente con “La poesia soffre”.
È una confessione, ma anche una dichiarazione di fede: la poesia soffre, sì, ma “accarezza, lenisce e assorbe il dolore”. È come se nei suoi versi la parola stessa si facesse terapia, carezza, luce dopo il buio.
E poi, nei toni più quieti di “La poesia sboccia nelle siepi e nei giardini”, la Paradiso ritrova la serenità, la “quiete benedetta” che arriva dopo l’inquietudine. È la poesia che sboccia nel quotidiano, nei giardini della vita, come un fiore che nonostante tutto continua a cercare il sole. È il canto della rinascita, quella che avviene in silenzio, “oltre i moti del cuore”, dove la poesia diventa “profumo di altri risvegli possibili”.
Tra le voci luminose che ho incontrato, quella di Flavio Nimpo risuona come una preghiera. La sua “Compagna nel tuo cammino incerto” è un dialogo intimo tra l’uomo e la Poesia, intesa come guida, lanterna, presenza costante. Il poeta riconosce nella parola il potere di tradurre l’esperienza in senso, di condurre verso “la luce e l’eterno”.
La sua è una visione alta e serena della poesia come forma di conoscenza e atto d’amore verso la vita.
“Uomo, sono Poesia”, scrive: un verso che è già un manifesto, un’alleanza tra l’arte e la vita.
Mirella Filice, con “Kroton”, restituisce il respiro del mito e la sacralità della memoria.
La sua Calliope, “Colei dalla bella voce”, diventa simbolo di un mondo che nonostante tutto continua a cercare la bellezza.
Nei suoi versi la poesia è la voce della civiltà, un ponte fra l’antico e l’oggi, un richiamo alla purezza dell’origine.
Assunta Morrone, una delle voci che più mi hanno toccato nel profondo.
Le sue “Stringo tra le braccia” e “Carne e sangue i versi strappati all’incoscienza” mi sono apparse come confessioni intime, scavate nella carne e nella memoria. Nei suoi versi si sente la solitudine di chi “resta bastante di se stessa”, ma anche la salvezza che arriva dall’Arte, dall’ellenica grazia del ricordo.
La poesia di Morrone è un esercizio di verità, un attraversamento del dolore. Nella sua “Sono lacrime di salmastra memoria”, le parole diventano pietre di un cammino difficile, ma necessario: è la poesia che dà forma alle ferite, che ne fa architettura, canto, ricostruzione.
La poesia, per Morrone, è il luogo dove si può essere vivi anche dentro la ferita.
Accanto alle voci liriche e contemplative, si staglia quella di Alessandro Sicilia, vincitore del Premio Speciale della Giuria con la lirica “Santità due”.
Un testo breve, essenziale, ma potentissimo: una supplica laica che attraversa i nomi e gli orrori della storia recente – “Hitler o Stalin / Netanyahu o Amas / Trump o Putin” – per chiedere, con disarmante semplicità: “Santità, ditemi chi è Dio?”.
In poche righe, Sicilia compie un gesto poetico e politico insieme: restituisce alla poesia la sua funzione più antica, quella di interrogare il potere e difendere l’uomo.
È la parola che denuncia, che accusa, che resta in piedi davanti all’assurdo.
Commoventi e luminose le poesie della sezione “In vernacolo”, dove la lingua madre diventa cuore e memoria.
Qui la poesia torna alla sua origine orale, al ritmo della terra e del quotidiano.
In “Iu ’a pienzu ccussì”, Carla Curcio immagina una lezione impartita da un gufo-maestro ai suoi alunni: un racconto ironico e sapiente che ricorda come la poesia, anche nel dialetto, “fa la storia”.
È una difesa gioiosa della tradizione, un elogio dell’arte come strumento di conoscenza e civiltà.
Accanto a lei, Clementina Petroni, con “U Tiemp”, trasforma il tempo in personaggio vivo, in compagno sfuggente e crudele.
Il suo dialetto napoletano vibra di dolce malinconia: il tempo “nun se fa mai acchiappa’”, e in quella rincorsa si riconosce la condizione umana.
Una poesia che scorre come un fiume antico, dove la lingua del popolo diventa lingua dell’anima.
E ancora piene di bellezza e armonia le poesie di Clementina Petroni, Antonella Cipollone, Gaetano Scicchitano, Elisabetta Napoli, Rita Ciliani.
Ritrovare tutte queste voci, una accanto all’altra, è stato come entrare in una grande casa di luce e di ombra, dove ogni poeta apre una finestra diversa sul mondo.
C’è dolore, certo, ma anche una dolcezza antica, un bisogno di armonia che accomuna tutti, perché la poesia non guarisce cancellando, ma guarisce accogliendo; non dimentica il male, lo trasfigura in bellezza, e nel farlo salva chi scrive e chi legge.
In queste pagine ho sentito la poesia diventare voce, volto, presenza.
Un canto corale che consola e unisce, come se, anche solo per un istante, ogni ferita dell’anima potesse trovare la sua parola giusta.
In ogni voce, in ogni verso, ho ritrovato lo stesso battito: quello della parola che cura, che consola, che resiste.
Come scriveva lo stesso Umile Francesco Peluso, la poesia è “fiotto di fresco sentimento”: e lo è ancora, oggi, in questi poeti che ne rinnovano la linfa.
Questa antologia non è solo una raccolta di versi, ma un atto collettivo di fiducia nella parola, nella sua capacità di trasformare il dolore in coscienza, il silenzio in canto, la vita in bellezza.
E allora comprendo davvero perché poesia oggi:
perché la poesia non è un lusso, ma un bisogno dell’anima;
perché non guarisce cancellando, ma guarendo con la memoria;
perché ci insegna a restare umani, nel tempo incerto che abitiamo.
Tra queste pagine, ho sentito la poesia diventare voce, volto, carezza.
E in quel coro di anime, ho ritrovato – per un istante – anche la mia.
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