“Quando il gusto è una scelta di vita”, secondo episodio di Tre Sorsi di Vodka
Cos’è Tre Sorsi di Vodka
Tre Sorsi di Vodka, “L’incontro”
Il tempo sembra fermo in quel bar all’angolo. Lucilla, Vittoria e Paola sorseggiano la loro vodka, l’aria è tiepida e accarezza con gentilezza la loro pelle, un passante attira la loro attenzione, è un papà che tiene per mano il proprio bambino, impegnato ad assaporare con soddisfazione e piacere il suo gigantesco gelato al cioccolato. Lucilla d’un tratto si rivolge alle amiche e dice: “ragazze ma voi lo ricordate quel giorno in gelateria?”.
Paola interviene come se avesse la risposta giusta a quella domanda: “Parli di quando per scegliere il gusto del gelato ci vollero almeno 30 minuti?”. Vittoria si sovrappone alla voce di Paola e con tono imponente e una risata piena dice: “Vero, ricordo il cameriere innervosito e noi che ci prendevamo gioco di lui”.
Lucilla con un filo di voce nostalgico: “quel giorno fu un giorno che difficilmente dimenticheremo tutte, fu il giorno dei dubbi, il giorno delle scelte, il giorno che concluse un periodo, il giorno che partendo dal gusto di un gelato strinse sempre più il nostro rapporto in un cammino intimo e celato, vicine nella gioia e clandestine nel dolore”.
Il silenzio riempie gli spazi vuoti tra le tre donne ed inizia il viaggio in un lungo malinconico ricordo.

Milano, maggio 2013, Lucilla, Paola e Vittoria hanno deciso di passare un week end insieme a casa di Paola che in quei giorni è sola poiché la coinquilina è via per lavoro.
Pronta a varcare la porta di casa con Paola, Lucilla grida: “Vittoriaaaa muoviti sono tre ore che sei in bagno, dai! Vogliamo il gelato”. Vittoria, con calma e con la solita eleganza quasi fastidiosa, risponde: “Ragazze bisogna essere perfette anche per andare in una semplice gelateria, ricordatelo sempre, la bellezza non predilige luogo, la bellezza è essenza”.
Le due si guardano e in coro le gridano: “Coco Chanel muoviti!”. Soprannominata così dalle amiche perché da sempre attenta all’estetica, sempre perfetta anche solo per andare a dormire, ma Vittoria è anche piena di tanto, piena di tutte quelle emozioni che riversa in ogni minuta scelta: dei capelli, del trucco, del profumo, dei sorrisi mai negati, della severità che occorre vestire quando il tempo lo richiede, della dolcezza che regala solo a pochi, dell’amore che trattiene stretto nel suo cuore e trasforma in energia per ogni giorno che inizia.
Eccola uscire dal bagno, piena della sua luce e di tutte quelle piccole attenzioni che ha dedicato ad ogni centimetro del suo corpo.
“Dai ragazze, mamma mia come siete lente. Su, su, andiamo a regalarci questa oretta di dolce piacere per il nostro palato”. Paola e Lucilla sorridono e il loro sguardo è come se parlasse: “Sempre la solita, sempre Vittoria”.
Arrivate finalmente in gelateria, si avvicinano alla vetrina, dove immobili e agghindati come se dovessero fare la più bella delle sfilate ci sono i tanto temuti gusti, decine e decine con nomi che non dicono nulla sul sapore, miscele senza senso come Corazzata Potëmkin, Puffo ubriaco e Tegola di mezzanotte.
Davanti a tutti quei gusti, anche quelli un po’ più classici, si può perdere la testa prima di decidere quale sia quello giusto.
E si, perché una scelta è sempre una scelta, che sia di un gelato, che siano gli orecchini da indossare al mattino, che sia la scelta di un lavoro, che sia accettare la corte di uomo, che sia scegliere le parole da non dire, che sia il colore delle tende in casa, la canzone da ascoltare, chiamare o dimenticare quel vecchio amico, scegliere di alzarsi o abbandonarsi ad una bella dormita rigenerante rischiando di essere licenziata. Una scelta dice molto di più di un semplice gusto, per alcuni una scelta non è mai una decisione distratta, neanche se si tratta di scegliere il semplice gusto di un gelato. E per quanti scelgono distrattamente, c’è qualcosa di più profondo che li guida nella semplicità di quella scelta.
Lo sguardo severo del ragazzo che con maestria crea giochi di gusto e colore con un semplice gelato, aumenta le incertezze di Paola, tentata da un classicissimo cioccolato-vaniglia teme il giudizio di colui che si è impegnato a combinare sapori a casaccio e che ora sicuramente pretende che lei assaggi la sua “peperonata gelida” e la trovi estremamente deliziosa!
Immobilizzate davanti a questa distesa di gusto, e indecise sulla scelta, le tre donne vengono interrotte dall’irruenza di Maria Giovanna: ”Cazzo! ci vogliamo sbrigare?”. Paola si volta e vede una donna alta e robusta, capello corto, jeans e maglietta nera mezza manica, se non fosse per la pelle liscia e un orecchio incoronato da una fila di piercing, penserebbe di trovarsi davanti a Mario, il camionista vicino di casa.
Lo sguardo truce di Maria Giovanna sosta per un attimo negli occhi spaventati di Paola e tanto le basta per capire la situazione. Addolcita quel tanto che serve a farle piegare le labbra strette in un sorriso beffardo, fa un passo avanti affiancando Paola e con la voce stentorea di chi è abituata a farsi ubbidire, ordina al gelataio due mega coppe con i gusti più strani che Paola aveva mai senti-to e mai, mai avrebbe avuto il coraggio di ordinare, e posa la coppetta fra le sue mani incerte. Una vocina nella testa le ricorda che non bisogna accettare caramelle dagli sconosciuti, ma la sfrontata sicurezza con cui Maria Giovanna la guarda e le sorride la fa sentire protetta, la fa sentire al sicuro.
Quella fu la prima volta che Paola incontrò la donna che le avrebbe cambiato la vita nel bene e nel male. Oggi quel ricordo è solo l’incrociarsi dei loro sguardi e la scelta subita e non presa. Perché Paola non sceglie mai, lascia che siano gli altri a farlo per lei. Non è mai stata un tipo deciso, proprio in niente. Per quanto fosse riuscita ad imporsi nella scelta della facoltà universitaria il rimorso per non aver realizzato i desideri dei genitori la attanagliava al punto che i primi anni di università non aveva dato neanche un esame. In compenso questa condizione la aveva facilitata nel fare amicizia con matricole indolenti e con i fuoricorso attempati con i quali faceva baldoria ogni sera per ritardare il momento in cui sarebbe rientrata a casa ad affrontare il peso dei libri chiusi, abbandonati sul tavolo. Anche in amore si lasciava trascinare. Maria Giovanna quel giorno la scelse, fu un caso, fu destino o forse fu semplicemente il gusto di una scelta, che le restò incisa sulla pelle e, nonostante la fine di quel rapporto, ancora era lì come un tatuaggio indelebile.
Vittoria prende una coppetta alla nocciola, preferisce di gran lunga il cono, ma non le piace mostrarsi nella volgarità di sfoderare la sua discreta lingua per consumare il gelato, né le piace dar adito alle persone intorno di lasciarsi andare a pensieri perversi in un momento così poco intimo come essere al bar. Rinuncia così ad una pratica decisamente più appagante per una coppetta composta e dignitosa. Lei sceglie sempre nocciola, un gusto equilibrato tra crema e frutta secca, in bilico tra salute e trasgressione, è come afferrare il piacere ma frenarsi al momento giusto prima di lasciarsi travolgere, così da sgravarsi dal senso di colpa per qualche caloria in più.
Eppure non era così prima, aveva assaggiato molti altri di gusti, semplicemente abbandonandosi alla scelta di quello che il suo animo voleva in quel momento: il cioccolato, bianco e fondente, rocher, e tutte le varianti che abbia mai trovato in gelateria.
Vittoria adora il cioccolato, ancora oggi non si fa mancare mai quel quadretto di fondente 90 per cento dopo la cena, per appagare il palato dalle privazioni che la sua forma fisica richiede. Ma quando era più piccola, più ragazzina, più semplice, per tanto tempo ha scelto sempre quello che davvero desiderava, perché sceglieva di pancia o forse con il cuore, e Vittoria dietro quella tagliente e controllata bellezza di oggi ha un cuore squisitamente romantico, e ha sempre scelto l’amore, giusto o sbagliato che fosse. L’amore è stato sempre al centro della sua vita, niente di più importante se non l’amore che illumina i suoi occhi, e il dolce sapore del cioccolato, che Vittoria ama tanto, non poteva non essere la sua scelta più vera e che ha sempre reso quel momento davvero pieno di gioia.
Eppure oggi lei, davanti a tutti quei gusti, non lo sceglie, esita sempre, li analizza tutti come ad ascoltare quella voce in fondo al suo cuore che le dice “Ma scegli quello che vuoi davvero!”.
Le succede sempre, non solo davanti alla vetrina dei gelati. Dietro quella perfezione, l’imperfezione sa bussare puntualmente davanti ad una scelta, e lei sa riconoscerne le voci, ma la sua fermezza la blocca e sceglie sempre ciò che è meglio, anzi, sceglie quello che in tanti lunghi anni ha deciso fosse il meglio.
Ma se il dolce della vita non te lo gusti fino in fondo, qualsiasi altro sapore ti lascia sempre un po’ di amaro in bocca, per quello che hai lasciato incompleto, per quello che non hai gustato fino alla fine, per tutti i morsi negati alla vita e che come rimpianti ti circondano la sera. Quando rientra a casa, con le sue buste piene di qualsiasi cosa, dopo aver messo tutto in ordine, si lascia coccolare da calde coperte accompagnata da un leggero sottofondo musicale bagnandosi le labbra con un goccio di prosecco, e in quel preciso momento le ritorna in bocca quel sapore amaro, quello delle rinunce, quello delle dolcezze che ha lasciato fuggire, e che forse ora, adesso, con intorno il buio di una notte desolata, è l’unico che vorrebbe riassaporare.
C’è un ricordo che porta sempre con se, quel gelato con Chiara, la sua mamma, una signora d’altri tempi, capelli brizzolati raccolti, stile severo, nel volto e nelle parole, gonna fino a sotto il ginocchio, giacca e pashmina per non mostrare nulla di più a parte gli abiti in cui è avvolta. La Signora Ammirta era temutissima da tutte le amichette di Vittoria, non un grido di troppo, non scomposte a tavola, non eccessive. Vittoria ha subito per tanto tempo la severità di una mamma amorevole ma composta come la sua giacca, come la sua pettinatura, come forse le era stato insegnato dover essere.
Un caldo pomeriggio, sempre di maggio, Vittoria aveva 12 anni, era quello il giorno che dedicavano al gelato, un piccolo sfregio che Mamma Chiara le concedeva. “Vittoria non esagerare, ogni eccesso è sempre sbagliato, se sceglierai sempre troppo nella vita non ti sarà dato di tornare indietro e pagherai uno scotto troppo alto per i tuoi colpi di testa”. “Mamma, è solo un gelato! Io voglio quello che mi piace!”.
“Bada Vittoria, troverai tante cose belle nella tua vita, non farti ingannare dalla dolcezza che svanisce e non lascia nulla. Il gusto, ricorda, si aggiusta sempre, ma la sostanza ti renderà un donna forte e sicura”. Ma il misurato ricordo della severa mamma è legato intimamente ad una importante cicatrice che ora torna prepotente a sanguinare, e il viaggio di Vittoria tra i suoi fantasmi del passato ha inizio.
“Ho sentito dentro di me quella voce e ho avuto paura, paura che la mia gioia fosse troppa, da scombinare quella bella pettinatura di mamma. Con che parole eleganti e composte avrei potuto dirle “anche io sarò mamma”, io che quei gelati dovevo sceglierli con tutta quell’attenzione, figuriamoci con quale attenzione dovevo decidere se e quando diventare mamma. Sono certa che non si rinuncia alla propria felicità per quella degli altri, e sentire qualcosa dentro di me era la gioia più forte che avessi mai sentito. Una potenza così carica proprio nel mio ventre, proprio mia, ero culla di un piccolo essere che forse sarebbe stato un uomo bellissimo, forse un delinquente, forse una donna severa come mamma, forse una dolce infermiera. Ho immaginato mille dettagli in quel così breve tempo che mi ha reso madre, prima di sentire la violenza di quella severità ricordarmi che non era il momento, che non avevo uno status sociale definito per poter avere un figlio, non avevo una dorata e pesante fede al dito che poteva permettere a quel dolce essere di venire al mondo, non avevo la stabilità che si richiede per poterlo stringere forte e dargli tutto il mio amore ora e sempre, non avevo nulla a parte il mio amore. Si, pensavo bastasse, e anche oggi penso basti amare un figlio per averlo, anzi penso sia necessario amarlo, ascoltarlo, proteggerlo, per averlo; al diavolo le altre cose, ma lei non la pensava così. I pensieri si rincorrono così veloci in poco tempo e devi scegliere, anche se non ne hai gli strumenti e la forza, devi scegliere, e ho scelto che nessuno sapesse, ho scelto che nessuno soffrisse, tranne noi, lui ed io, lui che non ha avuto mai la possibilità di chiedermi “perché mamma non hai combattuto per me”? Ed io che non ho avuto mai la forza di perdonarmi”.
Dolce come il cioccolato, acre come il cedro, variegato come la stracciatella, avvolgente come la panna, il dolore di quella scelta ha tutte le sfumature che merita, e l’amaro di quella gioia non consumata ritorna come un gusto familiare di vita mai vissuta in pieno. Vittoria non aveva mai raccontato alle amiche di questa rinuncia, ma di fronte a quella vetrina tutto riaffiorò nella sua mente e al tavolo della gelateria quei ricordi uscirono così rapidamente da coprire qualunque altro suono e lei non ebbe il tempo di frenarli e nasconderli come aveva fatto fino a quel giorno.
Il tempo nel ricordo di quella gelateria porta le tre donne lontano dal bar e ora è il turno di Lucilla, del suo viaggio e di quella scelta così complicata. Lucilla chiede un cono limone e fior di latte, contraddizione di due gusti che forse non trovano mai un loro equilibrio ma che racchiudono fermezza. L’aspro del limone ti riporta con i piedi per terra dopo aver assaporato il gusto dolce del fior di latte che fa sembrare tutto bello e tutto così infinitamente candido.
Erano passati due mesi eppure tutto sembrava così fresco. Il 12 marzo Lucilla aveva accompagnato il papà Franco dal medico per una visita di routine. Franco un uomo semplice, aveva dedicato tutta la vita al lavoro e alla famiglia. Si era sposato giovanissimo e a 20 anni era già papà della sua unica adorata figlia Lucilla, l’aveva chiamata così perché il suo nome significa luce e lei era per lui il suo splendore. Mani grandi, accoglienti e calde, capelli brizzolati, occhi azzurri come il mare, profondi e luccicanti. Appena poteva portava Lucilla sulla spiaggia a guardare i pescatori rientrare dopo la pesca. Franco amava il mare, quell’immenso che si perde all’orizzonte gli aveva dato sempre serenità, e voleva che anche la sua incantevole Lucilla potesse cogliere quello che le meraviglie del mare potevano offrirle.
Quel giorno Franco aveva un po’ di dolori, niente di insolito, a parte un insistente fastidio ad un braccio che attribuiva ad uno sforzo eccessivo fatto al lavoro. Franco, 63 anni, faceva il muratore e spesso era costretto a sollevare sacchi di cemento; per lui era normale avere qualche dolore muscolare. “Papà sei pronto? Andiamo che poi devo scappare al consultorio”. “Lucilla aspetta che sto mettendo le scarpe e vado a dare un bacio alla mamma”. Franco non usciva mai di casa senza salutare affettuosamente la moglie Carmela, sempre indaffarata a preparare conserve e a sistemare la casa. Era un giorno come gli altri, una semplice visita di routine. Lucilla e Franco alle 15 e trenta erano dal medico di famiglia, come al solito c’era da aspettare un po’, e nell’attesa Lucilla raccontava al padre del consultorio, quando improvvisamente il suo parlare fu interrotto da una voce netta e acuta: “Signor Corsi Franco può entrare”. “Papà andiamo ci stanno chiamando”.
La luce filtrava dalle tende e creava uno strano gioco di ombre sul dottor Chiarotti. “Accomodatevi. Franco come stai? Carmela? Lucilla? E Giulio come sta? Sempre in giro?”. Nei paesini calabresi ci si conosce tutti e il medico di famiglia è quasi un parente, ti conosce da quando sei nato, ti ha visto crescere e sa tutte le medicine di cui ha bisogno la tua famiglia. “Dottore noi stiamo tutti bene, però ora controlliamo papà, che io devo scappare al consultorio”.
“Lucilla sempre che scappi e corri, hai sempre avuto questa passione per la corsa fin da piccola, scappavi ovunque, eri velocissima. Allora Franco, controlliamo la pressione”.
Il dottore prende lo sfigmomanometro, avvolge la fascia attorno al braccio di Franco, tra il braccio e il manicotto pone lo stetoscopio, con l’apposita peretta gonfia manualmente la camera d’aria presente nella fascia che inizia pian pian a stringere il braccio, quasi a comprimerlo, e in questo momento il dottore legge il valore da attribuire della pressione massima, lascia sgonfiare la camera d’aria e legge la pressione minima. Il dottore rivolge lo sguardo a Franco preoccupato del responso, e dice: “90/140, potremmo andare meglio ma per l’età che hai non è male, devi cercare di fare movimento e mangiare un po’ meglio. Ti prescrivo le analisi del sangue che almeno una volta all’anno dobbiamo farle”. Franco prende coraggio e dice: “Dottore ho un dolore al braccio da qualche giorno, pensavo fosse dovuto al lavoro, ad uno sforzo eccessivo sollevando i sacchi in cantiere, ma è diverso rispetto al solito”. “Franco fammi vedere il braccio”. Franco sfila la camicia e mostra il braccio, intanto Lucilla osserva e ascolta in silenzio e forse anche con un po’ di preoccupazione. Il medico lo esamina con attenzione, prova a fargli fare movimenti in tutti i versi ma pare non ci sia nulla di anomalo. “Franco mi sembra tutto a posto, ma per sicurezza ti prescrivo un’ecografia per avere un quadro più preciso. Una volta che hai i risultati ci rivediamo. Saluti a casa”. “Va bene, grazie di tutto e buona giornata”. Lucilla e il papà lasciano lo studio del medico e rientrano a casa chiacchierando con la loro solita complicità e scherzando sul braccio dolorante di Franco.
I giorni passano e Franco è in attesa dei risultati delle analisi, il dolore al braccio non va via e le preoccupazioni nella sua mente cominciano a farsi spazio. Ogni giorno sembra essere più stanco, ogni giorno un muscolo fa sempre più male. É il 17 marzo bisogna ritirare le analisi e portarle da Chiarotti.
Quando leggi le analisi non capisci mai cosa tu abbia realmente, sei stai bene, se stai male, leggi nomi complicatissimi a cui cerchi disperatamente di dare una definizione, e poi ti dici vabbè non sarà niente di grave. Purtroppo il dottor Chiarotti non era della stessa opinione, quel giorno disse che le analisi non erano come lui si aspettava e che i dolori e quella stanchezza eccessiva andavano controllati più attentamente, quanto prima Franco avrebbe dovuto fare una Pet (tomografia ad emissione di positroni). I giorni passavano tra preoccupazioni, ansia e angoscia, fino ad arrivare al 20 marzo giorno fissato per eseguire l’esame. Intanto Lucilla andava sempre meno al consultorio per cercare di stare quanto più possibile vicino al papà. Nella vita pensi che le cose negative non possano mai succedere a te, pensi sempre che qualcun altro sia destinato a vivere quelle sofferenze invece tu no, tu sei un eletto, certe tragedie possono solo sfiorarti, ma è solo un insensato modo per illuderti che la vita riservi solo cose belle, e poi quando arriva la tempesta non sei pronto ad affrontarla. “Quel giorno non arrivò la tempesta ma l’uragano più grande che potesse travolgermi, papà aveva la Sla e procedeva veloce come le corse che facevo da bambina. Fu un colpo duro da digerire, non eravamo pronte, non lo ero io, ma in fondo non lo si è mai in questi momenti. Ma lui, lui invece era pronto, aveva già pianificato tutto, sapeva quello che voleva e soprattutto come lo voleva”.
Nei mesi successivi la situazione andò sempre peggiorando, il papà di Lucilla era costretto a letto e da lì a poco avrebbero dovuto ricoverarlo perché iniziava ad avere problemi a respirare, la Sla si stava facendo spazio nei suoi polmoni.
“Il 30 marzo a qualche giorno dal trasferimento in ospedale di papà, lui mi chiamò in camera, pensavo avesse bisogno di acqua e invece gli serviva molto di più. Con voce labile mi disse: Lucilla siediti qui a fianco a me e ascolta, – con gli occhi lucidi senza aprire bocca mi poggiai sul letto e lui mi prese la mano – Lucilla, amore mio, sei stata e sei la luce che ha illuminato la mia vita, il sorriso che mi ha fatto svegliare felice ogni mattino, tu sei il calore che mi riscalda, sei essenza ed è proprio per questo che devo chiederlo a te questo sforzo”.
Lucilla non riesce a trattenere le lacrime, scendono sulle guance fuori controllo, vorrebbe essere forte di fronte all’uomo che è il suo faro, all’uomo che le ha dato tanto amore, ma non ci riesce ed è sempre quell’uomo a darle la forza anche in quel momento.
“Lucilla non piangere, devi essere forte lo devi essere per tua madre, ora ascoltami bene”, con voce leggera e quasi impercettibile. “Si papà dimmi, ti ascolto”. “Luci io sono un uomo che ama il mare, ama lo spazio aperto, non voglio passare gli ultimi momenti della mia vita attaccato ad una macchina, non voglio che tu e la mamma abbiate questo ricordo di me, portami al mare Lucilla, fammi salutare il mio compagno di vita, lascia che il nostro ultimo ricordo sia una spiaggia e noi che guardiamo l’orizzonte, lascia che il mio respiro si perda nel mare e non in una asettico ospedale, lasciami la libertà”. Lucilla in lacrime non capisce bene la richiesta del padre, cerca disperatamente di mettere a fuoco quelle parole, non c’è abbastanza lucidità per farlo, con voce allarmata e preoccupata. “Papà cosa mi stai chiedendo?”. Franco senza esitazioni, deciso e fermo come l’uomo che è sempre stato risponde: “Non mi attaccate ad una macchina, non voglio essere un vegetale, portatemi in spiaggia e lasciate che mi spenga lentamente tra le vostre braccia accompagnato dal sottofondo delle onde che si increspano l’una nell’altra. Lucilla aiutami”.
Il pianto disperato di Lucilla riempie ogni angolo della buia stanza, compre il sole e disperde il buio, è il momento di scegliere, è il momento di decidere.
Nel silenzio Lucilla si allontana dalla stanza, “Lucilla dove vai?”, non risponde, e lontana con i pensieri, corre da mamma Carmela, e si rifugia nel suo caldo abbraccio cercando conforto in attesa di prendere la decisione più difficile della sua vita.
Lucilla decide di prendere tempo, chiama la clinica e rinvia il ricovero. Nei giorni successivi Franco si aggrava sempre più e Lucilla passa il tempo lontana da quella stanza, non ha la forza di oltrepassare quella porta, non vuole più vederlo così. Pensa di non sapere come aiutarlo anche se in fondo al suo cuore sa cosa deve fare.
Il 6 aprile Franco ha una forte crisi respiratoria, se non sarà portato in ospedale potrebbe non farcela. Il tumulto interiore di Lucilla è un contrasto di emozioni, di sensazioni, è rincorrere una risposta giusta che sembra non esserci. “Mamma preparati andiamo al mare”, con in mano le chiavi della macchina e un plaid corre in camera da Franco. “Papà andiamo, voglio che tu sia felice, voglio che tu possa regalare l’ultimo respiro al mare, voglio aiutarti come tante volte hai fatto tu con me”. Lucilla non riesce a trattenere le lacrime, la disperazione è troppo grande, con mamma Carmela al fianco aiutano a sollevare Franco dal letto e lo portano in macchina.
Il viaggio verso la spiaggia non è molto lungo, silenzi e lacrime colmano l’aria, in quella strada verso il più triste degli addii.
Il mare è lì immenso e calmo come non mai, come se aspettasse qualcosa, Franco seduto sulla spiaggia lo ammira, il respiro affannato ormai copre il rumore della sabbia spostata dal vento, Carmela e Lucilla lo abbracciano e sanno che quella sarà l’ultima volta. All’orizzonte dei gabbiani nel cielo giocano ad inseguirsi, un vento freddo accarezza il viso di Lucilla, il respiro di Franco piano piano è sempre più leggero, e come se lentamente si stesse lasciando andare, e come se quel soffio si confondesse nel vento per essere portato in un luogo molto molto lontano. Il sole sta calando, e insieme a lui si spengono le speranze, Franco non respira più avvolto tra le braccia di Carmela e Lucilla.
L’amore soffice come il fiordilatte e la scelta dura e forte come l’aspro del limone.
Mentre il colorato viaggio nei ricordi volge alla fine il cameriere interrompe l’intimità della memoria, “Scusate ragazze, ne porto altri tre?” e Vittoria risponde, decisa e incisiva, “certo, altri tre sorsi di vodka”.




